mercoledì 24 giugno 2015

Scritto sulla pelle

Quando le nostre ferite interiori bussano alla porta per riemergere dall'oblio, invece di ricacciarle indietro possiamo dare loro la possibilità di esprimersi. Se emerge un disagio, qualcosa ci sta dicendo che abbiamo taciuto troppo a lungo ignorando le spie rosse. Le abbiamo coperte con un panno invece di permettere loro di urlare e sfogarsi.

Tutte le ferite interiori non rimarginate sono come ferite sulla pelle in suppurazione. Finché non togliamo il pus, i vermi e le medichiamo, ignorarle porta alla morte.
Ma ogni ferita lascia una cicatrice a ricordarci che da quella lotta, da quell'aggressione siamo usciti vittoriosi, siamo sopravvissuti diventando più forti e consapevoli, e quella belva o nemico affrontati non fanno più paura.

Clan delle cicatrici - Foto dell'autrice
Come spiega Clarissa Pinkola Estés nel suo bellissimo libro Donne che corrono coi lupi (ed. Frassinelli), dovremmo andare fieri delle nostre cicatrici e contare i nostri anni non anagraficamente ma in base al numero di cicatrici che portiamo.
Sentirsi parte del clan delle cicatrici, come lo chiama lei, è riconoscere la nostra parte guerriera che non si piega al vittimismo, ha sorpassato la fase in cui dava la colpa alle ferite del suo dolore. Ha fatto pace con la propria storia perché l'ha resa ciò che è oggi.

Un atti psicomagico che propongo è scriversi sulla pelle con una penna tutto ciò che vorremmo dire alla nostra parte ferita. Se non vogliamo o non riusciamo a dirlo a parole possiamo disegnarlo. Lasciamo fluire fuori ciò che non siamo mai riusciti ad esprimere prima, e se ci viene da piangere lasciamo scorrere le lacrime come fossero inchiostro. Poi lasciamo quelle parole svanire naturalmente, senza sfregarle via con una spugna. Lasciamo che scendano in profondità a cicatrizzare ciò che ancora sanguina dentro di noi.

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